09 agosto 2011

La stella a sei punte del capitalismo

La piramide dell’organizzazione economica e sociale di tipo capitalistico è nota a tutti. Un vertice che poggia su un’ampia base stabilisce le direttive e le dorsali dello sfruttamento delle cose e degli uomini, seguendo un rispettoso principio gerarchico imposto dal denaro, e che indica allo stesso tempo la densità di popolazione nella figura.
La misura di tutto non è il lavoro ma il denaro e il denaro che genera denaro. Come sosteneva Marx il valore delle merci non lo fa il contenuto del lavoro in esse depositato, ma lo fa il mercato che genera prezzi. E’ questa la grande disuguaglianza tra il valore d’uso e il valore di scambio delle merci. Chi produce, chi lavora, riceve un corrispettivo per la forza-lavoro fornita, ma il capitalista che gestisce il prodotto nella distribuzione e nello scambio ne ricava un valore superiore.
Questo era un cardine della critica al sistema capitalistico industriale, ma ora il denaro va inteso non più nell’unica forma propria, di liquidità o misura patrimoniale come qualche tempo fa, oramai è espressione di altre accezioni che risulteranno di natura astratta, virtuale, e come tali numericamente illimitate. Anche lo sfruttamento dell’uomo, come previsto e descritto nella fabbrica, cambia. Se aumenta in modo illimitato il capitale finanziario di un qualche ente, posto in condizione di accumulare o addirittura di produrre denaro da sé, significa che aumenta della stessa ragione la povertà degli altri che non ne partecipano. Alla piramide di prima, quella con il vertice su, possiamo affiancarne un’altra con il vertice questa volta rivolto verso il basso che stabilisce l’ampiezza dei privilegi. I due triangoli così affiancati, ed opposti, possono essere posti in correlazione per livelli. Man mano che si scende dalla piramide del capitalismo, allo stesso tempo diminuisce il profitto così come il benessere della popolazione.
Sovrapponendo le due figure se ne ricava una terza con la forma di una “stella a sei punte”.
Il godimento, relativo alla posizione occupata, risulta giustificato e persino ovvio utilizzando il principio del darwinismo sociale che coniuga ricchezza e virtù da una parte, insuccesso ed incapacità dall’altra, e presupponendo una libera mobilità verticale nella “stella a sei punte”, dando quindi per scontato che il libero mercato è in grado di premiare la capacità di un qualsiasi singolo riconoscendogli una adeguata collocazione nella scala. Il libero mercato, quando puro e non ostacolato, sa riconoscere gli uomini di valore e conferisce loro anche libero movimento. Basta crederci ed ungersi del “sogno americano”, tutti gli uomini sono liberi e uguali, tutti pronti ai nastri di partenza per la magnifica competizione che è la vita.
Il sistema è indiscutibile, quando si riscontrano situazioni di criticità, o di povertà individuale o di un intero popolo, le cause sono sempre d’origine esogena al massimo accidentale, mai da individuare all’interno della struttura economica imperante.
C’è sempre l’incapacità del singolo o di strutture ritenute ancora troppo arretrate, anacronistiche, incapaci d’aprirsi al nuovo scambio e quindi ostacolanti la ricchezza che altresì sarebbe garantita. Il grido che risuona sempre di fronte alla recessione, al debito, alla povertà, è sempre lo stesso: deregolamentazione, flessibilità per il lavoro e privatizzazione delle strutture pubbliche, salvo poi usare l’ipocrisia tipica di certi riformisti con le solite lacrime di circostanza di fronte all’ennesima disgrazia sul lavoro o davanti la fame nel terzo mondo (giustamente facevano notare gli operai del porto di Genova che le morti sul lavoro sono da considerare “omicidi sul lavoro” con responsabilità da ricercare in quanti hanno avvallato il principio della precarietà, deliberatamente ignorando la sua inconciliabilità con la sicurezza e la formazione, mentre come sostengono molti antropologi in diversi paesi, dove ora si muore di fame, prima non si conosceva neanche la parola “povertà”).
Ma il mercato e il guadagno devono rimanere davanti a tutto e a tutti, le sue vittime, così come la fame fanno parte di una errata ricezione del messaggio o dipendono dall’incapacità d’adattamento, la sana competitività premia gli uomini devoti e intraprendenti, e i deboli stanno in fondo alla piramide come previsto, si prendano pure le loro responsabilità se non potranno avere una adeguata assistenza sanitaria, non vadano a cercare le colpe negli altri, bastava in fondo pagare l’assicurazione.
I bravi sono pochi, ma questi pochi godranno di molto, a volte di tutto.
La rappresentazione della “stella a sei punte” ha un’aderenza sia su un piano umano e sociale, sia nei rapporti tra nazioni ( o regioni geografiche come ora ridotte).
L’americano Gorge Kennan, del Dipartimento di Stato, nel 1948 scrisse: “Abbiamo (gli Stati Uniti) il 50% della ricchezza mondiale, ma solo il 6,3% della popolazione mondiale. In questa posizione non possiamo che essere oggetto d’invidia e risentimento. Il nostro compito nel tempo a venire sarà quello di dar vita ad un sistema di relazioni che ci permettano di mantenere questa disparità”.
Merito alla franchezza e alla lealtà d’intenti, mai altra voce fu più chiara e lungimirante.
Nel 1971 il presidente degli Stati Uniti Nixon sospende la conversione di dollari in oro. In quegli anni si ha una svolta epocale per le banche americane dovuto all’enorme afflusso di capitali provenienti dalla nuova organizzazione dei produttori di petrolio, l’Opec. Il petrolio è scambiato solo in dollari, e le banche operano prestiti ai paesi del terzo mondo, i quali non saranno in grado di restituire. Alla fine degli anni ’70 molti sono tra questi paesi, quelli a trovarsi indebitati con tassi d’interesse che salgono vertiginosamente, mentre le oligarchie del posto, arricchite e super armate, portano capitali all’estero sotto gli occhi benevoli e misericordiosi dei plutocrati delle banche.
La Banca Mondiale e il Fondo Monetario sono pronti anche ad altri finanziamenti. Ma il diavolo vuole l’anima.
I nuovi finanziamenti concessi vengono barattati secondo un preciso programma cha va sotto il nome di Piano di Aggiustamento Strutturale (PAS). Il piano prevede che questi disgraziati paesi si adoperino per una riduzione drastica di opere pubbliche, sanità e istruzione comprese, per un’apertura dei mercati interni senza vincoli di protezione alle merci che vengono dall’estero, e diano una inequivocabile spinta di privatizzazione che escluda ingerenze statali in materia economica.
Risulterà provvidenziale la richiesta di democrazia da parte di quei paesi provenienti dal disgregato impero sovietico, che scalpitano per la “libertà”: una massiccia e ancor più rapida privatizzazione che in questo caso si sposa bene con “corruttibilità”.
L’anima che la finanza mondiale vuole è il controllo economico completo ed arbitrario, in chiave capitalistica, dell’economia dei paesi poveri e meno poveri. Con il debito distribuito compra il loro silenzio e la loro schiavitù.

Della ricchezza americana complessiva non esiste una distribuzione ragionevole tra la popolazione, l’interpretazione della “stella a sei punte” trova anche qui completa applicazione.
La coerenza, guardando realtà macroscopiche e microscopiche, è grande: comunque paga sempre il più debole.
Così come tra i paesi maggiormente indebitati con le banche mondiali troviamo quelli più poveri, così tra la gente a sorreggere la baracca di quel che resta dello stato ci sono quelli con i redditi più bassi.
Si pensi ad esempio che nel 2003 le tasse versate all’erario dalle grandi società statunitensi erano appena il 7% del totale delle entrate federali. Al contrario, a partire dal 1950, le tasse diventavano sempre più onerose per i lavoratori americani. Nel 1952 costituivano appena il 10% delle entrate, mentre nel 2003 ne costituiscono il 40%.
Da noi la situazione non è dissimile, quando qualcuno, spesso avviene in campagna elettorale, volendosi dare un tono di giustizia e legalità, grida: “Bisogna che tutti paghino le tasse”, quest’affermazione contiene implicitamente un’intenzione non dichiarata che a pagare devono essere tutti i poveracci, e non s’include in questo la ricerca all’evasione proveniente dalle grandi multinazionali o banche nazionali e mondiali di proprietà privata, i cui giri d’affari e introiti reali sono ignoti e blindati. Nessuna autorità può controllarli, non è proprio pensabile, loro stanno al vertice alto della “stella a sei punte”.
Quando poi qualcun altro gli fa eco, invocando la stessa giustizia e legalità, con uguale veemenza strilla: “Bisogna assolutamente abbassare le tasse”, si riferisce ovviamente agli imprenditori e ai soliti comitati d’affari.
Risultato finale è quello che il povero diavolo che vive, sopravvive, del suo onesto lavoro avrà un intero apparato di controllo, spesso zelante, che lo monitorerà per qualunque cosa, soffocandolo. Da questa situazione si alimenta, alla base della piramide del capitalismo, un risentimento contro lo stato strozzino, accompagnato spesso da un’insana voglia di “privato”. Lo Stato non è più in grado di dare servizi, e resta soltanto il suo asfissiante apparato amministrativo-burocratico o di polizia.
Il gioco è fatto, è quello del cane che si morde la coda, la base diventa nemica dello stato e di se stessa, mentalmente si predispone a processi di deregolamentazione necessari al sistema capitalistico. Si realizza un processo di consenso deviato secondo-mercato. Il potere viene sorretto da una maggioranza indifferente.
Presso le Nazioni Unite esisteva un organo di monitoraggio internazionale per le multinazionali, l’UNCTC, che aveva il compito di verificare affinché queste operassero nei rispetti dei diritti umani, dei lavoratori e dei consumatori. Nel 1985 elaborò una serie di dati dai quali si evinse che un terzo del fatturato complessivo mondiale era prodotto da 350 multinazionali, metà delle quali statunitensi. Quando nel 1992 arrivò alla nomina di sottosegretario generale dell’Onu Richard Thornburgh, già collaboratore di Gorge Bush, fu abolito l’intralcio UNCTC.
L’abbattimento di barriere per il fruire libero incontrastato delle merci, la mancanza di controlli e reali evasioni, glorificano il mercato, e sono vanto per la società capitalistica globale.
Immaginatevi un carpentiere di Cassino, o di qualunque altro posto, che per arrivare al cantiere parte alle 5,30 del mattino in treno, per ritorno a casa, distrutto, alle 19,00 di sera, quale margine di tempo e di denaro ha per evadere? Qual è il suo paradiso fiscale? Sarà forse il garage sottocasa di cui ha cambiato destinazione d’uso per darlo ad un figlio che sta per sposarsi?
Chi è che porta capitali nelle isole di Cayman, o in Liechtenstein, forse il carpentiere di Cassino?
Per evadere mettiamo per 100 milioni d’euro, meno dell’evasione di un noto centauro o di qualche “coniglietta” dello spettacolo, (che restano comunque pesci piccoli a confronto dei giri d’affari inevasi degli addetti ai lavori), il nostro povero lavoratore dovrebbe faticare, per un reddito mettiamo di 20.000 euro all’anno, ininterrottamente dal 3.000 a.c. ad oggi, per ben cinque millenni.

Il sistema della “stella a sei punte” è di per sé instabile, perché contenente contraddizioni legate a principi d’ingiustizia e di sfruttamento, per questo motivo si tenta di mediare questi problemi con l’istituzione di enti e strutture, l’Onu, la Banca Mondiale, l’Unicef, che vengono, almeno formalmente, presentati come gli istituti deputati a garantire il governo mondiale e la pace. L’uso strumentale di queste organizzazioni ha rivelato la loro funzionalità all’apparato di dominio anziché di tutela per popoli, assumendo spesso, nella migliore dei casi, un effetto placebo più che correttivo. Pertanto il loro operato ha una funzione stabilizzatrice del sistema altresì instabile, l’uso che se ne fa è per mantenere la predazione e ritardare il superamento, la caduta.

Nell’estesa, grande, critica di Marx all’economia capitalistica, legata fortemente ad uno sfruttamento dovuto alla produzione, al valore d’uso e al valore di scambio, al plus valore, non era previsto fino in fondo lo sviluppo, lo sfruttamento, capitalistico nella direzione delle banche, o addirittura di un sistema mondiale di finanziamento che prescinde dalla fabbrica stessa e dalla “grande industria”.
Il ricatto oggi perpetrato dalle banche mondiale sui popoli, assoggettati con le buone o vinti dalle guerre americane, è tale da porre legami capestro per condizionare completamente le loro economie che non avranno più ciascuno scopo o utilità nazionale, ma esclusivamente d’uso globale. Allo stesso modo il singolo, l’uomo, è sottomesso alle filiali delle banche centrali distribuite sul territorio, il lavoro non basta più, necessitano finanziarie, mutui, assicurazioni, ed è costretto a dipendere dall’apparato finanziario come la vita dipende dall’acqua, le banche non curano più il risparmio ma il debito.
Il debito dei popoli e degli uomini si oggettivizza nel reale rapporto di subordinazione, su questo posa l’equilibrio del nuovo “stabile” sfruttamento. Il debito ha un carattere assoluto, anzi è l’unico carattere che guida ogni decisione, su di esso s’imposta la pseudo economia di un paese così come i sacrifici di una famiglia.
Il benessere materiale, così come l’equilibrio individuale, nella società neocapitalistica, non viene più a dipendere da un rapporto lavorativo di tipo salariale, di per sé già alienato, ma prevalentemente è vincolato al debito che eccelle nel portare alienazione.
Ricchezza e debito appaiono in condizione di equipresenza, l’uno ha bisogno dell’altro. La ricchezza, almeno quella propostaci, per essere goduta ha bisogno di un prestito e quindi del debito. La ricchezza non può esistere senza debito, l’una contiene l’altro e viceversa. L’uomo nel raggiungimento di questa ricchezza incamera il suo debito. Ma la ricchezza e il debito per l’uomo sono in contraddizione, la ricchezza è la negazione del debito. Questo debito garantisce la ricchezza reale non per l’uomo, ma per l’architettura finanziaria che lo ha creato, e così lo concepisce.
Ricchezza e debito si possono considerare in una contraddizione dialettica, entrambi fanno parte dello stesso momento dialettico.
La ricchezza vera è quasi completamente goduta da vertice della “stella a sei punte” e diminuisce man mano. La ricchezza è il triangolo con il vertice in basso, il debito è in triangolo con il vertice in alto, e aumenta gradualmente, quando ci si sposta verso la base. La nuova povertà così come l’odierna ricchezza si fondano sul debito.
L’uomo già mortificato dalla società industriale, che gli aveva tolto il lavoro come alta facoltà espressiva dello spirito umano, riducendolo invece a pura forma di baratto, merce, si trova ora doppiamente mutilato. Il debito assume per gli uomini un carattere globale, comune a tutti, ma il suo carattere assoluto spinge l’uomo ad attività unilaterali e parziali, negando quindi l’universalità naturale propria dell’essenza e dello spirito umano.
La “verità” dell’uomo diventa il debito. La ricchezza è una rappresentazione determinata dal debito, è la sua costruzione fenomenica. Per una gran parte della popolazione questa ricchezza è legata al debito in modo passivo, nel senso che subisce il debito, per altri questa ricchezza è reale, la relazione che ha con il debito è di tipo attivo, poiché è fondata sul debito non proprio ma contratto dagli altri.
Allo sfruttamento della società pre-borghese che poneva l’uomo nella condizione di schiavo o di servo, si sostituisce quello della società industriale borghese che usa l’uomo nella forma di “forza-lavoro”, con unico rapporto di tipo salariale, a questa segue l’attuale forma di sfruttamento diretto-indiretto, attraverso il lavoro e il debito, del mercato globale.
Il dominio esercitato è totale, l’uomo post-industriale è sottoposto su tutto il pianeta alla stessa pressione, tra i vari popoli e i vari individui, varia soltanto la porzione sfruttata, i popoli sono così frantumati così come l’unità universale umana è rotta e parcellizzata, asseconda dell’esigenze del grande demiurgo, il mercato.
Il credere che l’odierno momento storico non appartenga ad un processo in movimento e quindi mutabile, ma sostenere piuttosto che questo sia un punto d’arrivo, significa credere dogmaticamente, accettare irrazionalmente che il modello capitalistico sia l’unico al mondo possibile.
Significa non individuarvi un principio d’ingiustizia che ha sede nella sua dimensione poco umana, e attribuirgli di conseguenza immortalità, ovvero piegarsi ad una sua fallace mistica d’eternità secondo la quale così è sempre stato e così sarà per sempre.
Lo sfruttamento del lavoro dell’uomo e il suo debito sono il cemento del sistema capitalistico-finanziario, della “stella a sei punte”, ma allo stesso tempo rappresentano le contraddizioni di carattere endogeno che ne caratterizzeranno la fine.
Da queste contraddizioni potrà nascere una nuova forma di lavoro, che non sarà né da schiavo, né da servo, né da salariato, ma socializzato, e in economia aspetterà al popolo la proprietà della moneta. E’ su questa strada che l’uomo riconquisterà la sua unità universale.

Lorenzo Chialastri

[fonte: Rinascita del 2 aprile 2008]

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