Molti pensano che siamo arrivati al crepuscolo del berlusconismo: con tristezza per alcuni, con sollievo per altri, divisi quasi in parti uguali.
Invequesto modo di ragionare rappresenta una inaccettabile semplificazione della questione oggi posta sul tappeto dalle complesse - e decisamente anomale - dinamiche interne ed esterne della società italiana.
Quello che è giunto al crepuscolo non è solo il berlusconismo, versione aggiornata e corretta del craxismo degli ultimi anni della cosiddetta “prima Repubblica”, vale a dire un sistema di potere e di affari che, dietro una verniciatura populista, tutela smaccatamente gli interessi di piccole ma fortissime lobbies finanziarie.
No: quello che sta franando non è solo il berlusconismo, con tutto il suo apparato coreografico di tipo propagandistico e pubblicitario, più o meno volgare, più o meno cialtrone, ma sempre ricamato sullo stereotipo della “Milano da bere”, esteso all’Italia intera; quello che sta franando è tutto un mondo, tutto il mondo della classe politica italiana.
Il voto degli Italiani sui quattro referendum del 12-13 giugno, largamente trasversale e largamente apartitico, ne è un chiaro indicatore, per chi lo voglia vedere: non è stata bocciata solo la politica del centro-destra, ma la politica italiana in quanto tale.
Una politica vecchia, vecchia negli uomini e nelle idee, così come vecchia nella inefficienza e nel malaffare; una politica pienamente e irrimediabilmente fallimentare.
Il fallimento della politica italiana non è contingente, ma strutturale: sempre più vengono al pettine, sotto la spinta dei fattori esterni (come la crisi economica mondiale) e soprattutto interni (i ritardi, i compromessi, le viltà e le mezze misure, oltre alla spaventosa corruzione), i nodi dolenti del sistema-Paese, per decenni rimandati e ormai paurosamente accumulatisi.
Berlusconi è arrivato al capolinea: il grande illusionista sta cadendo vittima delle infinite promesse non mantenute (e impossibili da mantenersi), il suo impero di cartapesta sta franando e si sta squagliando come nebbia al sole, così come i sogni si dissolvono allo spuntar del giorno e al ridestarsi della coscienza.
Ma chi ne prenderà il posto?
Da qualunque parte si volga lo sguardo, non si riesce a vedere nessun partito, nessun gruppo politico che abbia le qualità e le caratteristiche per traghettare questa Italia stremata, delusa, sfiduciata, in piena crisi morale prima ancora che produttiva, fuori dal guado, fuori dalla miasmatica palude in cui da troppi anni è sprofondata.
Non sembra esservi nessuno che sappia esprimere, con la dovuta autorevolezza, gli interessi, non più di qualche lobby o di qualche fazione, ma del Paese intero; nessuno che abbia la cultura politica necessaria per porsi come obiettivo, realmente e non solo a parole, il cosiddetto bene comune.
Cominciamo dalla Lega.
Se il carisma di Berlusconi è ormai in caduta libera, tanto che nemmeno la patetica claque prezzolata osa più farsi vedere davanti al Tribunale di Milano, quando il cavaliere deve presentarsi davanti ai giudici, nemmeno quello del “Senatur” gode di buona salute.
Diciamolo francamente: la stella di Umberto Bossi si è irrimediabilmente appannata, lentamente ma inarrestabilmente, a partire dal 2004, quando è stato colpito da una grave malattia ed è poi rientrato in politica con evidenti difficoltà di ordine fisico.
Niente da dire contro chi fa politica in non buone condizioni di salute, ci mancherebbe; qui il problema è politico: perché, durante la sua lunga malattia, i vari colonnelli della Lega ci hanno provato, a farsi riconoscere da Berlusconi come suoi interlocutori privilegiati, ma nessuno di loro c’è riuscito; Berlusconi ha deciso di puntare tutto sulla ripresa di Bossi, stimando che nessuno dei suoi gregari e delfini valesse una cicca.
Ci ha azzeccato: Bossi si è ripreso e da allora, impegnato anche dal senso dell’onore e dell’amicizia (povero ingenuo: l’amicizia del Cavaliere…), il “Senatur” si è legato a filo doppio col satrapo di Arcore, nel bene e nel male: senza quasi rendersene conto è divenuto un suo ostaggio, credendo di essere ancora lui a tenere le fila del gioco; e ora, inesorabilmente, il tracollo di Berlusconi sta travolgendo anche il leader della Lega.
Di fatto, Berlusconi è costretto a dire di sì a tutto quel che Bossi gli chiede, ma più per la facciata che nella sostanza: il decentramento a Nord di alcuni uffici di rappresentanza dei Ministeri sono, infatti, nient’altro che la facciata, mentre la guerra in Libia, al fianco della N.A.T.O., è la sostanza: e non è precisamente ciò che la Lega chiedeva e desiderava.
Bossi ha commesso una serie di errori di valutazione, specialmente a partire da quando l’ennesimo scandalo berlusconiano, il “caso Ruby”, nel gennaio 2011, ha definitivamente aperto gli occhi a larghi settori della base leghista; a partire da quel momento, il popolo della Lega ha cessato di sentirsi impegnato verso Berlusconi ed è tornato alle posizioni originarie: antiberlusconiane, perché antiplutocratiche.
La base sociale della Lega è costituita dalla piccola impresa, dall’artigianato, dal piccolo commercio: vi è, quindi, una incompatibilità di fondo con la politica di Berlusconi, che è volta sfacciatamente a favorire gli interessi delle classi alto borghesi: i percettori di rendite, più che i grossi imprenditori, e tutto il sistema delle banche; quando non, per dirla tutta, a favorire se stesso e il proprio impero mediatico e finanziario.
Bossi se n’è dimenticato; strano a dirsi, il suo intuito politico era molto più vivo quando se ne andava in giro in canottiera e, del Cavaliere, diceva sdegnosamente davanti ai microfoni: «Che cosa c’entra Berlusconi con la politica? Quello c’entra con i soldi».
C’è una differenza sostanziale fra il populismo berlusconiano e il populismo leghista: il primo è stato costruito su misura per servire gli interessi di un singolo individuo, ricco sfondato e ansioso di mettere il bavaglio alla magistratura: un populismo pensato e realizzato a tavolino, su una base ideologica piuttosto vecchiotta: un anticomunismo viscerale (quando i comunisti sono pressoché spariti dall’orizzonte politico) e un liberalismo altrettanto rozzo e datato, di tipo tatcheriano, basato sulle privatizzazioni selvagge e sul progressivo smantellamento dello Stato sociale.
In Italia, secondo i dati ufficiali, metà delle pensioni sono al di sotto dei 500 euro e quasi l’80 per cento sono al di sotto dei 1.000, come dire che quasi tutti pensionati italiani sono ridoti alla fame; non solo: il 90% delle tasse per la spesa sociale proviene da lavoratori dipendenti e pensionati e solo il 10% dai lavoratori autonomi, il 40% dei quali dichiara al fisco di incassare meno di 10.000 euro all’anno, ossia molto meno di un operaio non specializzato: il che dice tutto sulle dimensioni gigantesche dell’evasione fiscale.
E come se questi dati non bastassero, resta da aggiungere la più grave di tutte le anomalie italiane: il fatto che, in presenza dei salari più bassi fra i grandi Paesi industrializzati, l’Italia è anche quello in cui è più caro il costo del lavoro: paradosso solo apparente, che vede lo Stato e le imprese impegnati in una eterna partita a scacchi per vedere chi riesce a fregare l’altro con maggiore successo, il tutto sulla pelle dei lavoratori.
Tornando alla Lega: i conti non quadrano, i nodi dovevano venire al pettine perché l’elettorato leghista non ha molto a che spartire con quello berlusconiano, anche se la base sociale è più o meno la stessa: solo che, mentre la piccola borghesia settentrionale vota Lega per dare ossigeno a un ceto imprenditoriale schiacciato dalle tasse, quella berlusconiana vota PdL per ottenere libertà indiscriminata e distruzione delle regole a vantaggio dell’interesse privato: dai vergognosi condoni edilizi alla depenalizzazione dei reati fiscali, l’obiettivo è chiaro.
Gli elettori leghisti, quindi, non sono soltanto schifati dai comportamenti del premier e dal suo accecamento contro la magistratura, che lo porta a trascurare tutto il resto, in nome della crociata contro le “toghe rosse”; sono anche arrabbiati perché, da quando la Lega è al governo, non hanno visto mantenute le promesse che erano state fatte loro in materia sociale ed economica e hanno dovuto accontentarsi di chiacchiere, secondo i vecchi, logori rituali della Prima Repubblica.
La classe dirigente leghista non si è mostrata all’altezza dell’ampio mandato popolare ricevuto nelle regioni del Nord, si è “romanizzata”; anche se, per tentare di salvar la faccia, continua a blaterare in termini di protesta, come se, invece che al governo, fosse all’opposizione: un vecchio trucco che ha le gambe sempre più corte e che, ormai, non incanta più nessuno.
Gli elettori leghisti chiedevano fatti, e non li hanno visti; in cambio, sono stati sommersi di parole: la portata del fallimento è testimoniata dal fatto che Calderoli ha detto che, se non verrà fatta al più presto la riforma fiscale, sarà lui per primo a scendere in sciopero. Parola di ministro, di ministro del governo in carica: chi voleva capire, a questo punto, ha bell’e capito.
Oltre a questo, all’interno della Lega c’è anche una questione morale, che non è separabile dalla questione politica: un certo modo di gestire la cosa pubblica, a dir poco troppo disinvolto; la tendenza ad accumulare poltrone e stipendi (di sindaco, di assessore provinciale, di governatore, di ministro), alla faccia della semplificazione e del risparmio; perfino un inizio di nepotismo in stile Papato del Rinascimento, col figlio di Bossi candidato da suo padre quale probabile delfino, a dispetto della sua evidente mancanza di qualità (e di gavetta).
E queste cose non piacciono a molti elettori leghisti, che sono persone serie e che si erano realmente aspettati un nuovo modo di amministrare e di far politica.
Dei partiti di opposizione non c’ è molto da dire.
Futuro e Libertà, per adesso, non si capisce bene dove andrà a parare; anche Fini, con tutte le sue giravolte ideologiche e dopo aver sostenuto Berlusconi per tanto tempo, appare legato a una stagione politica che gli Italiani vorrebbero archiviare: non c’è motivo di pensare che, tramontato il berlusconismo, egli potrà candidarsi come un uomo della nuova stagione.
Casini e i centristi si barcamenano come possono, ora inseguendo il miraggio di rompere il bipolarismo e di resuscitare, se non proprio la Balena Bianca, qualche cosa che le assomigli; ora, più realisticamente, paghi di presentarsi come l’ago della bilancia, capaci di far vincere o perdere la Destra e la Sinistra, a seconda della scelta di campo che decideranno di fare; nel frattempo, a livello di amministrazioni locali, trescano un po’ di là e un po’ di qua, in attesa di capire da che parte tiri il vento per saltare prontamente sul carro dei futuri vincitori.
Il Partito Democratico, nonostante tutte le batoste rimediate negli ultimi diciassette anni, ossia da quando Berlusconi entrò in politica e infranse la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, non sembra avere imparato quasi nulla dai propri errori e continua a sfoggiare la solita insipienza, la solita demagogia, le solite pregiudiziali ideologiche (eguali e contrarie a quelle del Cavaliere), nonché le solite divisioni interne; e, cosa più grave di tutte, la cronica incapacità di far emergere una nuova classe dirigente, che prenda il posto di quella del tempo di D’Alema - a meno che il “nuovo” sia rappresentato da uomini come Matteo Renzi, che sono buoni, tutt’al più, per fornire qualche facile sketch su base giovanilistica ad un comico come Maurizio Crozza.
Bersani, parliamoci chiaro, non ha la statura di un leader nazionale, qualunque giudizio si voglia dare sulla sua buona fede, una categoria etica, quest’ultima, che, sul terreno politico, risulta di assai difficile verifica: se la si intende come onestà intellettuale, allora, forse, gli si potrebbe anche dare un sei meno in pagella, ma ci vuol altro per fare un futuro capo di governo, in un Paese sinistrato e paralizzato come lo è l’Italia di questi ultimi anni.
Nichi Vendola è sembrato a molti rappresentare la vera novità della sinistra; ma la nuova formazione politica, Sinistra, Ecologia e Libertà (originariamente: Sinistra e Libertà) pare più un minestrone vetero-marxista, con qualche pennellata di postmoderno; una specie di Democrazia Proletaria in versione aggiornata e corretta in salsa ambientalista, ma caratterizzata dalla vecchia incapacità di comprendere ciò che avviene dall’altra parte della barricata: valga per tutti il rifiuto verso qualunque ipotesi di dialogo con il leghismo, che non è solo un partito politico, ma una cultura politica ormai saldamente radicata nel Settentrione e con la quale bisogna saper fare i conti, se si vuole candidarsi alla guida del Paese (di cui il Nord, piaccia o non piaccia, è la parte trainante) e non a una sorta di meridionalismo neocomunista in chiave anti-settentrionale, statalista e assistenzialista.
A sorpresa, l’unico uomo dell’opposizione che abbia parlato da leader, all’indomani della vittoria nei referendum del 12 e 13 giugno 2011, è stato Di Pietro: avrebbe potuto gonfiare le piume come un pavone (Bersani lo ha fatto, rendendosi abbastanza ridicolo), invece ha riconosciuto lealmente che a quel risultato avevano concorso tanto elettori di centro-sinistra che elettori di centro-destra e che tutti meritavano ugualmente rispetto.
Però l’Italia dei Valori nasce come risposta specifica a un male specifico della politica italiana, la privatizzazione della politica fatta dal berlusconismo: caduto questo, anche quella perderà la propria ragion d’essere.
Il rispetto della legalità dovrà essere patrimonio di tutti i partiti, senza eccezione; oppure l’Italia non riuscirà mai a diventare un Paese normale.
E avrà sempre bisogno di Salvatori della Patria, di sfrenati demagoghi, di sfrontati bugiardi, di arroganti piccoli uomini che si spacciano per grandi: con tutta la loro costosissima corte di adulatori, di faccendieri, di maneggioni e di ruffiani; con tutti questi Bisignani, questi Lele Mora, queste P2 e P3 e P4…
Non è solo la classe politica, comunque, che va mandata in pensione al più preso; è tutta la classe dirigente italiana, prima che possa infliggere altri colpi al sistema-Paese, prima che possa distruggere quel poco che rimane del tessuto sociale.
Di manager come Marchionne, per esempio, che sanno solo ricattare la classe operaia e tagliare ulteriormente i diritti dei lavoratori, non sappiamo che farcene: sono pagati milioni di euro per ridare fiato e competitività alle nostre industrie, ma le loro ricette sono quanto di più vecchio, di più decrepito, di meno intelligente si possa immaginare.
Pensano ancora come se fossimo nel 1911 e non nel 2011; credono ancora di poter scaricare sempre sugli stessi povero Cristi i costi della crisi e della loro stessa insipienza, della loro stessa mancanza di creatività, di spirito d’innovazione, di strategia complessiva.
È gente col paraocchi, che pensa vecchio e che non sa vedere un metro al di là del proprio naso; gente che in un capitalismo serio, come quello tedesco o quello giapponese, verrebbe adibita tutt’al più al ruolo di caporeparto, non certo di amministrare delegato di una delle maggiori industrie al mondo…
Bisogna mandare a casa questi gerontocrati avvizziti e boriosi, incollati indissolubilmente alle loro poltrone e fare spazio ai giovani: non solamente perché giovani, ma a quei giovani che sanno pensare in grande, che sanno pensare in termini nuovi.
Per uscire dal punto morto, dobbiamo ripensare tutti gli ambiti della vita nazionale: dall’economia alla finanza, dalla cultura alla ricerca, dall’amministrazione ai servizi pubblici, dalla giustizia alla pubblica sicurezza, dalla politica estera alle forze armate.
Occorre mettere mano alla scopa e spazzar via la polvere da ogni angolo della vecchia casa ammuffita; spalancare le porte e le finestre e lasciar entrare l’aria fresca; ventilare le stanze sonnacchiose, dove i ragni hanno filato indisturbati le loro ragnatele, e permettere che irrompa il soffio di una vita nuova…
Francesco Lamendola
[fonte: Arianna Editrice del 24 giugno 2011]
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