Recentemente il presidente nordamericano Barack Obama ha affermato che è necessario un ritorno ai confini precedenti al 1967 affinché il processo di pacificazione fra Israele e Palestina proceda senza problemi. Questa dichiarazione ha innescato un turbinio di reazioni da entrambe le parti: Netanyahu difende a spada tratta lo status quo, aggiungendo che non si può tornare più indietro e che la proposta statunitense è, perciò, inaccettabile. I palestinesi, invece, non sembrano essere rimasti sorpresi dalle affermazioni del governo israeliano: l’atteggiamento e la predisposizione al dialogo da parte di Israele sono rimasti inalterati nel tempo.
Obama sembra, dal canto suo, voler tentare di nuovo con la strada della diplomazia sulla questione israelo-palestinese, così da presentarsi agli elettori come il deus ex machina in grado di trovarvi una soluzione duratura. In effetti, al fine di uscire dal cul de sac creatosi dopo le prime dichiarazioni, egli ha recentemente detto che la sua idea di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 con scambi di territori, manifestata nel suo discorso di giovedì scorso, è stata «fraintesa». «Lasciatemi chiarire cosa significa ‘confini del 1967 con scambi mutualmente concordati’. Significa che, per definizione, israeliani e palestinesi negozieranno un confine che è diverso da quello esistente il 4 giugno 1967. Questo è ciò che ‘scambi mutualmente concordati’ significa» – così Obama si è espresso al fine di rettificare le sue precedenti parole. Secondo gli ultimi discorsi pubblici, inoltre, le priorità che gli USA affermano di avere sembrano abbastanza contraddittorie: garantire la libertà di commercio nelle regioni del Vicino Oriente (vedi il petrolio), combattere il terrorismo, fermare la diffusione delle armi atomiche (quando gli Stati Uniti sono fra i maggiori possessori di ordigni nucleari), salvaguardare l’incolumità dello stato israeliano ma, al contempo, favorire il dialogo di quest’ultimo con la Palestina. C’è da chiedersi: come è possibile da un lato voler tutelare gli interessi di uno Stato (dando il placet implicito ai continui nuovi insediamenti che vengono stabiliti in territori che non sarebbero di competenza israeliana) e, allo stesso tempo, voler favorire un dialogo con la Palestina, quando l’unica forma di contraddittorio ammessa da una delle due parti è quella che l’altra, i palestinesi, accondiscenda alla colonizzazione continua dei propri territori?
Senza dubbio, nella remota eventualità che il presidente nordamericano riuscisse a creare, attraverso un dialogo mediato, delle basi per l’evoluzione del processo di pace, la sua popolarità aumenterebbe notevolmente fra gli elettori, ma per l’appunto bisognerebbe poi intendersi sul carattere di tale processo di pace. Tanto è vero che smussando il richiamo ai confini del ’67, Obama ha avuto modo di dichiarare al congresso annuale dell’Aipac (American Israel Public Affaire Committee, principale lobby pro-Israele negli Stati Uniti) che «Il sostegno degli Stati Uniti nei confronti di Israele è incrollabile» assicurando Tel Aviv sul sostegno contro il voto all’Onu di una risoluzione in cui si riconosca lo Stato palestinese: «Credo fermamente che la pace non possa essere imposta, neanche dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese indipendente».
E’ facile rintracciare in tali parole il sostegno anche dell’amministrazione Obama alla difesa dello status quo voluto dai falchi israeliani, così come sottolinea anche Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp, parlamentare di al Fatah e braccio destro di Abu Mazen, quando commenta le parole di Netanyahu riguardo la scelta fra pace o Hamas: «Ma di quale pace parla Netanyahu? Quella delle ruspe, di un mini staterello palestinese disseminato da insediamenti, la pace che esclude Gerusalemme, che cancella il diritto al ritorno dei rifugiati? Hamas ha sottoscritto un accordo che affida esclusivamente al presidente Abbas la conduzione dei negoziati. Hamas ha accettato di riconoscere come obiettivo strategico condiviso la creazione di uno Stato di Palestina “entro i confini del 1967”, così come Hamas ha accettato che sia un organismo unitario a decidere il modo in cui condurre la resistenza all’occupazione israeliana. Vincolare tutte le fazioni palestinesi a una linea politica che non ha nulla di estremista, dovrebbe essere visto da Israele e dalla Comunità internazionale come un fatto incoraggiante e non come una minaccia».
Opinioni moderate, difficilmente non condivisibili, che però stranamente non vengono accolte dal Presidente statunitense che a parole, come abbiamo visto, vorrebbe risolvere la questione palestinese.
Eleonora Peruccacci
[fonte: Eurasia del 25 maggio 2011]
Obama sembra, dal canto suo, voler tentare di nuovo con la strada della diplomazia sulla questione israelo-palestinese, così da presentarsi agli elettori come il deus ex machina in grado di trovarvi una soluzione duratura. In effetti, al fine di uscire dal cul de sac creatosi dopo le prime dichiarazioni, egli ha recentemente detto che la sua idea di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 con scambi di territori, manifestata nel suo discorso di giovedì scorso, è stata «fraintesa». «Lasciatemi chiarire cosa significa ‘confini del 1967 con scambi mutualmente concordati’. Significa che, per definizione, israeliani e palestinesi negozieranno un confine che è diverso da quello esistente il 4 giugno 1967. Questo è ciò che ‘scambi mutualmente concordati’ significa» – così Obama si è espresso al fine di rettificare le sue precedenti parole. Secondo gli ultimi discorsi pubblici, inoltre, le priorità che gli USA affermano di avere sembrano abbastanza contraddittorie: garantire la libertà di commercio nelle regioni del Vicino Oriente (vedi il petrolio), combattere il terrorismo, fermare la diffusione delle armi atomiche (quando gli Stati Uniti sono fra i maggiori possessori di ordigni nucleari), salvaguardare l’incolumità dello stato israeliano ma, al contempo, favorire il dialogo di quest’ultimo con la Palestina. C’è da chiedersi: come è possibile da un lato voler tutelare gli interessi di uno Stato (dando il placet implicito ai continui nuovi insediamenti che vengono stabiliti in territori che non sarebbero di competenza israeliana) e, allo stesso tempo, voler favorire un dialogo con la Palestina, quando l’unica forma di contraddittorio ammessa da una delle due parti è quella che l’altra, i palestinesi, accondiscenda alla colonizzazione continua dei propri territori?
Senza dubbio, nella remota eventualità che il presidente nordamericano riuscisse a creare, attraverso un dialogo mediato, delle basi per l’evoluzione del processo di pace, la sua popolarità aumenterebbe notevolmente fra gli elettori, ma per l’appunto bisognerebbe poi intendersi sul carattere di tale processo di pace. Tanto è vero che smussando il richiamo ai confini del ’67, Obama ha avuto modo di dichiarare al congresso annuale dell’Aipac (American Israel Public Affaire Committee, principale lobby pro-Israele negli Stati Uniti) che «Il sostegno degli Stati Uniti nei confronti di Israele è incrollabile» assicurando Tel Aviv sul sostegno contro il voto all’Onu di una risoluzione in cui si riconosca lo Stato palestinese: «Credo fermamente che la pace non possa essere imposta, neanche dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese indipendente».
E’ facile rintracciare in tali parole il sostegno anche dell’amministrazione Obama alla difesa dello status quo voluto dai falchi israeliani, così come sottolinea anche Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp, parlamentare di al Fatah e braccio destro di Abu Mazen, quando commenta le parole di Netanyahu riguardo la scelta fra pace o Hamas: «Ma di quale pace parla Netanyahu? Quella delle ruspe, di un mini staterello palestinese disseminato da insediamenti, la pace che esclude Gerusalemme, che cancella il diritto al ritorno dei rifugiati? Hamas ha sottoscritto un accordo che affida esclusivamente al presidente Abbas la conduzione dei negoziati. Hamas ha accettato di riconoscere come obiettivo strategico condiviso la creazione di uno Stato di Palestina “entro i confini del 1967”, così come Hamas ha accettato che sia un organismo unitario a decidere il modo in cui condurre la resistenza all’occupazione israeliana. Vincolare tutte le fazioni palestinesi a una linea politica che non ha nulla di estremista, dovrebbe essere visto da Israele e dalla Comunità internazionale come un fatto incoraggiante e non come una minaccia».
Opinioni moderate, difficilmente non condivisibili, che però stranamente non vengono accolte dal Presidente statunitense che a parole, come abbiamo visto, vorrebbe risolvere la questione palestinese.
Eleonora Peruccacci
[fonte: Eurasia del 25 maggio 2011]
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