Se ci fermiamo un attimo a riflettere su quale sia il gesto che, durante una nostra comune giornata, ripetiamo il maggior numero di volte, riconosceremo presto che si tratta del gesto di guardare l’orologio. Un gesto così scontato, ormai istintivo, che quasi come una funzione fisiologica accompagna la nostra esistenza, che ci appare impossibile immaginare una vita senza orologio. Il tempo, pensiamo giustamente, è il giudice supremo ed impietoso della nostra vita: come potremmo vivere senza misurarlo, senza tenerlo costantemente sotto controllo? E quale strumento migliore che i nostri orologi sempre più precisi e sofisticati?
Eppure, a pensarci bene, anche le nostre menti ormai assuefatte al ticchettio e ai display di questi insostituibili nostri compagni di vita non potranno non riconoscere che in effetti ci sono state intere epoche storiche, grandi civiltà che si sono alternate nel tempo e nello spazio, in cui nessuno portava l’orologio. Cosicché si resta alquanto increduli a pensare che grandi avvenimenti, guerre e battaglie, scoperte ed avventure che hanno segnato la storia dell’umanità siano avvenute senza che nessuno… sapesse che ora fosse! Che l’uomo, allora, non controllasse il proprio tempo? Che gli avvenimenti si susseguissero disordinatamente senza che nessuno li “misurasse”? Capiamo bene che ciò sarebbe impossibile: se il tempo è la dimensione più intima - ed insieme più misteriosa, ineffabile - dell’esistenza, bisogna riconoscere come ogni epoca, ovvero ogni civiltà, ha avuto il proprio specifico e peculiare rapporto con il tempo e, di conseguenza, il suo peculiare e specifico modo di coglierne l’inesorabile trascorrere.
Una storia delle “visioni del mondo”, delle visioni della vita e del cosmo che la ospita, può essere così vista da questa particolare prospettiva, ovvero come una storia delle visioni del tempo e dei modi della sua misurazione: una storia degli orologi. Nel 1954 Ernst Jünger pubblicò un curioso libro, Il libro dell’orologio a polvere. A prima vista un libro di erudizione, spesso citato di sfuggita nelle bibliografie del grande scrittore tedesco, quasi si trattasse di una delle immancabili “opere minori”. Ad uno sguardo meno superficiale, invece, una suggestiva riflessione sulla “storia del tempo”, in cui dietro la storia di quel particolare tipo di orologio che per interi secoli ha segnato lo scorrere del tempo prima dell’avvento degli attuali orologi meccanici, emerge la straordinaria vicenda dei rapporti tra uomo e tempo. “Sono certo – racconta Jünger all’inizio dell’opera – che il lettore conoscerà quel particolare stato d’animo in cui un oggetto, non importa se usato tutti i giorni oppure osservato solo di sfuggita, acquista ai nostri occhi uno speciale fascino”: fu proprio questo incontro quasi “casuale” con una clessidra regalatagli da un amico, a trasformare quello che anche ai nostri occhi appare come null’altro che un semplice quanto singolare soprammobile, buono per scaffali d’epoca o librerie, in un “simbolo” rivelatore di una ben precisa concezione del tempo. Una concezione che allo sguardo ormai “illuminato” di Jünger appare subito come radicalmente diversa, se non addirittura agli antipodi, rispetto a quella in cui è immerso l’uomo del mondo moderno, il mondo in cui il tempo dell’orologio a povere è stato soppiantato dal tempo dell’orologio meccanico.
Una storia delle “visioni del mondo”, delle visioni della vita e del cosmo che la ospita, può essere così vista da questa particolare prospettiva, ovvero come una storia delle visioni del tempo e dei modi della sua misurazione: una storia degli orologi. Nel 1954 Ernst Jünger pubblicò un curioso libro, Il libro dell’orologio a polvere. A prima vista un libro di erudizione, spesso citato di sfuggita nelle bibliografie del grande scrittore tedesco, quasi si trattasse di una delle immancabili “opere minori”. Ad uno sguardo meno superficiale, invece, una suggestiva riflessione sulla “storia del tempo”, in cui dietro la storia di quel particolare tipo di orologio che per interi secoli ha segnato lo scorrere del tempo prima dell’avvento degli attuali orologi meccanici, emerge la straordinaria vicenda dei rapporti tra uomo e tempo. “Sono certo – racconta Jünger all’inizio dell’opera – che il lettore conoscerà quel particolare stato d’animo in cui un oggetto, non importa se usato tutti i giorni oppure osservato solo di sfuggita, acquista ai nostri occhi uno speciale fascino”: fu proprio questo incontro quasi “casuale” con una clessidra regalatagli da un amico, a trasformare quello che anche ai nostri occhi appare come null’altro che un semplice quanto singolare soprammobile, buono per scaffali d’epoca o librerie, in un “simbolo” rivelatore di una ben precisa concezione del tempo. Una concezione che allo sguardo ormai “illuminato” di Jünger appare subito come radicalmente diversa, se non addirittura agli antipodi, rispetto a quella in cui è immerso l’uomo del mondo moderno, il mondo in cui il tempo dell’orologio a povere è stato soppiantato dal tempo dell’orologio meccanico.
“Un rassicurante senso di pace, l’idea di una tranquilla esistenza”: ecco le sensazioni che Jünger prova di fronte al lento e silenzioso scorrere della polvere bianca da un recipiente all’altro della clessidra. Non è un caso, sottolinea ancora Jünger, che “l’affinità dell’orologio a polvere con la quiete degli studi eruditi e con l’intimità della casa è stata più volte osservata”. Segno consolante di un tempo che lentamente “dilegua ma non svanisce”, crescendo anzi in profondità, la clessidra evoca quelle atmosfere suscitate anche da certi quadri famosi, richiamati da Jünger nel corso dell’opera, come la Melancholia o il San Gerolamo nello studio di Dürer, o da certi ambienti appunto di studio e meditazione o di familiare convivialità, dove, non importa se trascorso in silenzio o conversando, il tempo sembra scorrere con assoluta lentezza, quasi immobile o sospeso.
L’orologio a polvere ci riconduce così a quelle epoche in cui il tempo non veniva ancora “misurato”, almeno nel senso che diamo noi oggi a tale termine; a quelle età in cui i nostri orologi meccanici, con la loro “precisione”, sarebbero stati inconcepibili. Perché più che “misurare” il tempo, la clessidra lo lascia appunto scorrere, dileguare, e l’uomo si rapporta ad esso limitandosi a stimarlo con quella che solo agli occhi dell’uomo moderno può apparire una vaga quanto inammissibile approssimazione; approssimazione che invece per l’uomo del passato costituiva il modo più consono e naturale di rispettare il trascorrere stesso del tempo.
Il sorgere e il tramontare delle costellazioni, il giorno e la notte, la sera e il mezzodì, il canto del gallo e il volo degli uccelli – unici ed effettivi riferimenti temporali dell’uomo delle società arcaiche e premoderne – rappresentano infatti unità di misurazione fluide, dove i confini netti si perdono e confondono l’un nell’altro. Era un tempo, quello, dove la parola “puntualità” era assente dal vocabolario: ci si poteva aspettare anche per interi pomeriggi, per l’intero calar del sole al tramonto, senza che ciò costituisse alcun problema. Non si era mai “di fretta” e non si aveva paura di “fare tardi”. L’uomo si adeguava al ritmo ed al corso della natura, ai suoi “tempi”; quindi il suo stesso tempo era un tempo “concreto”, legato alle molteplici attività lavorative che sullo scorrere naturale del tempo erano fondate. Ancora per gli antichi romani, la durata delle ore non era sempre la stessa, in quanto dipendeva dal tempo effettivo di luce; cosa che a noi moderni sembra un’assurdità. Perché i moderni orologi meccanici mandano in frantumi quel legame: essi misurano il tempo secondo rigide unità uniformi, perciò stesse astratte ed artificiali, che spezzano l’armonia con il tempo naturale creando una nuova “natura”, quella della “Tecnica”, che rimodella il tempo secondo propri criteri. E se per l’uomo antico era il suo concreto lavoro a fondare e scandire il tempo, per l’uomo moderno è l’astratta pianificazione temporale dei suoi orologi a fondare i tempi del lavoro e quindi dell’esistenza. “In attività come la pesca, la caccia, la semina e il raccolto – afferma Jünger – viviamo senza orologio. Ci alziamo all’alba e aspettiamo finché non abbiamo catturato la selvaggina o […] rimaniamo nei campi finché non è stato caricato l’ultimo covone. Non è l’orologio che qualifica la nostra attività; al contrario il tipo di attività qualifica il tempo”. Del resto, lo stesso cambiamento si è verificato in merito allo spazio: in passato ogni “spazio” aveva i suoi propri strumenti e le proprie unità di misura, legati anche qui all’agire concreto dell’uomo - i piedi, i passi, il palmo –, prima che tutto venisse misurato con lo stesso “metro”. E che il tempo dell’orologio meccanico sia un tempo astratto, un tempo “innaturale”, che ci tiene prigionieri e annulla la nostra libertà, è una sensazione ancora oggi ben avvertita: l’esigenza di “staccare”, di rimmergersi nel tempo naturale, è una delle più sentite dall’uomo contemporaneo, che nei sempre più rari momenti di evasione dal mondo dell’automazione pianificata – il momento della fuga verso le “foreste”, il momento degli “amanti”, del “gioco” e della “musica”, scrive Jünger – per prima cosa desidera lasciare a casa l’orologio. Perché l’orologio non si addice a questi momenti.
E’ l’orologio a polvere, invece, proprio nella sua misurazione non eccessivamente precisa, che appare più adeguato a venire incontro a simili esigenze. Il suo non è un tempo astratto buono per tutte le occasioni, che omologa tutte le occasioni, bensì un tempo la cui durata è conforme ad un’attività ben definita. Si ricorre ad esso se si ha intenzione di studiare o pregare per circa un’ora, tenere una predica o una lezione di una mezzora, riposare o “cuocere un uovo”, dice Jünger: “in tutti questi casi l’orologio a polvere sarà […] come un fidato servitore. Proprio la possibilità di correlarlo empiricamente a determinate attività ne rivela il carattere insieme concreto e umano”. Insomma, dall’orologio a polvere non si vuole sapere “che ora è”, ma solo essere accompagnati in quella data attività, circoscrivendola in un determinato lasso di tempo. Perché l’orologio a polvere non “gira a vuoto”, come i moderni orologi meccanici, slegati da ogni relazione con la vita concreta.
Prima dell’orologio a polvere, nelle civiltà più antiche, è stato poi l’orologio solare a mettere in relazione, con ancor maggior aderenza ai cicli naturali ed al concreto operare umano, l’uomo e il tempo. Come per l’uomo arcaico la misura del tempo poteva essere fornita dall’ombra di un monte o di un albero, o dalla sua stessa ombra - il variare della cui lunghezza egli poteva costantemente osservare nel corso del giorno -, l’orologio solare, l’antico gnomone, seguiva lo stesso principio, proiettando un’ombra indicante la posizione del sole. E a tal riguardo, non dobbiamo pensare solo agli strumenti a questo scopo appositamente congegnati, come quelli che ritroviamo a Babilonia e in Egitto, e da lì poi introdotti in Grecia e a Roma: i primi orologi solari furono gli obelischi, le piramidi, le costruzioni megalitiche della preistoria. Invece di “che ora è”, si chiedeva: “Com’è l’ombra?” Gli orologi solari, a dispetto della sempre maggiore diffusione di quelli a polvere e poi di quelli meccanici, furono molto diffusi ancora nel Medioevo e fino al Settecento, continuando ad ornare, ad esempio, le cattedrali: era quindi la luce del sole a segnare il tempo, che era il tempo, in questo caso, della liturgia e delle festività religiose, il tempo “sacro”. E il tempo, prima dell’avvento di quello “tecnico” introdotto dall’orologio meccanico, è stato sempre un tempo “sacro”: se l’orologio solare si legava al ciclo del sole, quindi al movimento degli astri, simboli visibili degli dei invisibili, il rintocco delle campane delle chiese annunciava le ore canoniche della preghiera: erano queste, in numero di otto, a scandire il ritmo della giornata, e non le astratte ventiquattro dei nostri orologi meccanici.
Il tempo dell’orologio solare è un tempo ciclico, il tempo delle stagioni e dell’eterno ritornare. E’ un tempo non umano, perché il suo principio è il sole, “occhio” del Cielo; quindi tempo celeste. E’ il tempo del destino, del fato, a cui l’uomo non può sottrarsi: il corso delle ombre non dipende da lui, così come è impossibile divincolarsi dalla propria di ombra, che, proprio come il tempo e il fato, ci segue ovunque. Il tempo ciclico è così un tempo “inquietante”, tempo di antiche paure: paura che gli dei, o gli antenati, tornando, possano vendicarsi dell’ingratitudine degli uomini; o paura che il sole non torni più, negando la vita ai suoi figli prediletti, gli uomini. Il tempo ciclico è quindi anche il tempo del rito e del sacrificio. Tempo inquietante, il tempo ciclico è altresì il tempo del ricordo, il tempo della nostalgia: ricordo e nostalgia delle origini, dell’Età dell’oro, quando, in illo tempore, tutto ebbe inizio. Quindi tempo delle feste, che ritornano anch’esse ciclicamente e sulla cui cadenza si sono regolati tradizionalmente i calendari.
Se l’orologio solare si ricollega al Cielo, l’orologio a polvere è legato alla Terra: è quindi uno strumento di misura di natura tellurica. Il primo si fonda sugli elementi celesti – la luce irradiata dal sole e il ciclico alternarsi tra luce e ombra – il secondo su quelli terreni, come la sabbia che riempie i recipienti e la forza di gravità della Terra che la fa scorrere. Strumenti tellurici sono anche i parenti più prossimi dell’orologio a polvere, gli orologi ad acqua – presenti già nell’antichità e nei quali la sabbia è sostituita dall’acqua - e gli orologi ignei – che misurano il tempo attraverso la combustione di determinate sostanze e diffusi soprattutto nel Medioevo. E se il tempo degli orologi solari è un tempo “ciclico”, il tempo degli orologi tellurici è il tempo “lineare”: qui non abbiamo a che fare con moti circolari, bensì con movimenti di materia che scorre, fluisce, in senso appunto lineare. Siamo così di fronte alle due essenziali concezioni del tempo che, attraverso alterne vicende, hanno accompagnato il cammino dell’uomo: da una parte il tempo “mitico”, dall’altra il tempo “storico”; là il tempo del ricordo e della nostalgia, qua il tempo della speranza e dell’attesa. Il tempo ciclico è un tempo che dona e restituisce; il tempo lineare un tempo che promette. Nel primo l’Eden, dove il tempo è sospeso e non battono più le ore, è posto all’inizio, prima di tutti i tempi; nel secondo alla fine, la fine dei tempi. La differenza tra le due concezioni si esprime anche nei modi di dire e nelle espressioni della quotidianità: “il tempo passa”, “il tempo fugge” riflettono la concezione lineare; “tutto torna”, “corsi e ricorsi” la concezione ciclica.
Se l’orologio solare riflette il tempo del mito e quello a polvere il tempo della storia, l’orologio meccanico sancisce la fine della storia e l’avvento del regno della Tecnica. C’è storia, infatti, fin quando riconosciamo avvenimenti unici ed irripetibili, la cui trama disvela un senso che li lega l’un l’altro. L’orologio meccanico, dividendo il tempo in unità astratte ed uniformi, e pertanto intercambiabili – come intercambiabili sono gli individui che su di esse regolano la propria esistenza – annulla la peculiarità degli eventi e proietta l’uomo in un orizzonte privo di senso. Il tempo della Tecnica né dona né promette: si limita a “riprodurre” se stesso. Si limita a funzionare. Nel tempo della Tecnica, passato, presente e futuro sono parole “senza senso”, essendo tutti i momenti uguali, ripetibili, privi di una propria e specifica identità, dove “l’uno vale l’altro”. Nell’orologio a polvere, invece, questi tre momenti, che costituisco il filo della storia, sono ben scanditi: “nel vaso superiore – osserva Jünger - la riserva del futuro si dilegua, mentre in quella inferiore si accumulano i tesori del passato; tra le due guizzano gli attimi attraverso il punto focale del presente”. L’orologio meccanico realizza così l’aspirazione ultima dell’uomo della società tecnologica: la fine della storia e l’affermazione di un mondo che si limita a riprodurre se stesso, espandendosi indefinitivamente secondo linee di sviluppo puramente quantitative. Jünger anticipa così quelle riflessioni che costituiranno il tema centrale del successivo Al muro del tempo (1959), destinata a diventare una delle sue opere più note del periodo successivo alla seconda guerra mondiale, e dedicata appunto al problema delle nuove concezioni temporali che si annunciano al configurarsi dell’umanità post-storica.
Jünger arriva a definire l’orologio meccanico il prototipo della “macchina”, quasi l’“archetipo” di tutte le macchine. Il concetto di “macchina”, infatti, evoca subito quello di un oggetto fondato sullo stesso principio dei moderni orologi: l’automazione di una serie di ingranaggi regolati da movimenti meccanici uniformi e ripetitivi. L’orologio meccanico è quindi la necessaria premessa della macchina, perché senza di quello queste sarebbero impensabili. “Tutte le macchine e gli automi che lo seguiranno – afferma Jünger – lavorano al ritmo dell’orologio meccanico: le loro prestazioni sono traducibili nel suo tempo e si possono misurare in base ad esso”. E’ per questo che Jünger pone l’orologio meccanico a fondamento del mondo moderno: “con questo tempo ‘diverso’ ha inizio la modernità come oggi la intendiamo. Per capire cosa sia accaduto basta che guardiamo l’orologio”. La modernità non inizia né con la polvere da sparo, né con la stampa, e nemmeno con la scoperta dell’America, bensì con l’invenzione dell’orologio meccanico: “si può dire che il grande spettacolo della tecnica umana e della sempre più rigida automazione - continua Jünger - sia cominciato con il movimento del primo orologio meccanico”. Esso costituisce il primo anello di quella vasta catena, la prima maglia di quell’enorme rete planetaria tutto avvolgente che il mondo mobilitato dalla Tecnica rappresenta; il suo battito ha dato il là alla monotonia ed alla ripetitività che contraddistinguono i ritmi della nostra vita.
Prima della comparsa dell’orologio meccanico, l’Occidente non sembra conoscere nemmeno una sua specifica “tecnica”, ed i suoi strumenti, le sue “macchine”, erano più o meno quelli del mondo antico. Solo con l’orologio meccanico, secondo Jünger, “ciò che da allora in poi avrà il nome di macchina avrà poco a che vedere con ciò che gli antichi definivano con lo stesso nome”. Perché è sempre la diversa concezione del tempo, dunque del mondo, che sta dietro a tali strumenti a definirne l’essenza e la natura, e solo la scissione dagli “elementi naturali” per l’affermazione di un tempo “artificiale” ha reso possibile la macchina nella sua accezione di modello di organizzazione totale del mondo e non di semplice strumento ad hoc, limitato ed adeguato ad una sola e specifica circostanza. Più che prima macchina, allora meglio si potrebbe definire l’orologio meccanico come primo “automa”. Certamente anche l’antichità ha conosciuto i suoi automi, ma questi, in genere, venivano considerati nulla più che stravaganze, bizzarri giocattoli frutto dell’ingegno di menti senza dubbio geniali ma al tempo stesso eccentriche. Anzi, i costruttori di macchine e di automi dei tempi passati avevano spesso la fama di maghi, stregoni, da cui era bene stare alla larga. A tal proposito, Jünger ricorda il noto e divertente episodio di Tommaso d’Aquino che distrusse a colpi di bastoni l’androide costruito dal suo maestro Alberto Magno, e che questi si divertiva a far apparire all’improvviso ai suoi ospiti. Quell’Alberto Magno ricordato dai posteri anche come mago.
E come mago, dedito addirittura alla magia “nera”, è passato alla storia anche quello che la tradizione riconosce come l’inventore dell’orologio meccanico, Gerberto di Aurillac, arcivescovo di Reims e maestro dell’imperatore Ottone III, salito al soglio pontificio nel 999 con il nome di Silvestro II, tra le menti più universali che la civiltà medievale abbia vantato. Teologo, scienziato, matematico ed inventore di numerose “macchine”, nel corso del Medioevo si intrecciano attorno alla sua figura numerose leggende, che lo vogliono esperto in magia nera ed in combutta con il demonio. Sarà un caso che la tradizione abbia indicato proprio in lui l’inventore dell’orologio meccanico? E’ comunque certo che questo abbia fatto la sua apparizione attorno all’anno mille, ed il modo con cui la mentalità medievale si raffigurava il suo presunto inventore e si rapportava alle sue creazioni la dice lunga su cosa si pensasse a quel tempo delle “macchine”: in un modo o nell’altro, erano tutte opera del “demonio”. Ancora Pio IX, in pieno Ottocento, considerava tale l’invenzione delle ferrovie. E secondo Jünger a ragione, a partire da una certa prospettiva, perché dove fa la sua comparsa la “macchina”, là muore il “sacro”. “Con la stessa diffidenza – nota Jünger – il selvaggio accosta l’orecchio all’orologio da tasca. Se pensa che vi sia nascosto un demone, forse non ha torto”. Ed è per questo, che pochi, ai tempi di Gerberto o di Alberto Magno, di fronte alle macchine come agli automi, si lambiccavano il cervello per ricercarne o intravederne le possibili implicazioni pratiche. E’ notorio, del resto, che la storia delle invenzioni antiche è spesso storia del loro mancato utilizzo, cosa che per la mentalità moderna risulta inspiegabile. A tal proposito, un’altra tradizione vedrebbe nei cinesi gli inventori anche dell’orologio meccanico; ma come per la polvere da sparo, la stampa e la bussola, anche quello sarebbe stato destinato a restare poco più che una curiosità. Solo con l’occidentalizzazione, e quindi l’affermarsi della relativa concezione del tempo, l’orologio meccanico iniziò a diffondersi anche in Cina.
Echi di quella diffidenza, di quel sospetto, risuonano anche oggi, nel malessere e nell’insofferenza che ancora ai nostri giorni suscita in noi il contatto troppo ravvicinato con il mondo delle macchine, il mondo dell’orologio meccanico, che spesso additiamo come il vero responsabile delle nostre ansie e del nostro stress quotidiano. Ancora oggi, dice Jünger, avvertiamo che “esso indica realmente un tempo diverso da quello che scorre. Anche quando parliamo del movimento, del corso del tempo, del trascorrere del tempo, alludiamo a questo tempo antico, continuo, indiviso. Ma la lancetta dell’orologio non si muove secondo le sue leggi”. La lancetta non scorre, ma si muove a scatti; si ferma per poi riscattare in avanti e così all’infinito. Che tempo è mai questo? Un tempo che non scorre più, fluido e silenzioso, come scorrevano la sabbia o l’acqua della clessidra, la fiamma che bruciava il lucignolo dell’orologio igneo o l’ombra dello gnomone seguendo i movimenti degli astri. Eppure, proprio al fine di misurarlo e dominarlo meglio, di strapparlo alle forze elementari della natura e costringerlo entro le mura della nostra città, “fu concepita l’idea di misurare e suddividere il tempo con quelle macchine che noi chiamiamo orologi. […] Così cominciarono la loro corsa tutti gli orologi che oggi ‘vanno’”. Ma, osserva Jünger, è lecito chiedersi se in questo modo ci siamo costruiti un palazzo o una prigione. Resta il fatto che “all’epoca degli orologi a polvere tutti avevano più tempo di oggi che siamo accerchiati dagli orologi”. Abbiamo voluto misurare e dominare meglio il tempo; ma forse “il mondo degli orologi e delle coincidenze è il mondo degli uomini poveri di tempo, che non hanno tempo”.
Prima dell’orologio a polvere, nelle civiltà più antiche, è stato poi l’orologio solare a mettere in relazione, con ancor maggior aderenza ai cicli naturali ed al concreto operare umano, l’uomo e il tempo. Come per l’uomo arcaico la misura del tempo poteva essere fornita dall’ombra di un monte o di un albero, o dalla sua stessa ombra - il variare della cui lunghezza egli poteva costantemente osservare nel corso del giorno -, l’orologio solare, l’antico gnomone, seguiva lo stesso principio, proiettando un’ombra indicante la posizione del sole. E a tal riguardo, non dobbiamo pensare solo agli strumenti a questo scopo appositamente congegnati, come quelli che ritroviamo a Babilonia e in Egitto, e da lì poi introdotti in Grecia e a Roma: i primi orologi solari furono gli obelischi, le piramidi, le costruzioni megalitiche della preistoria. Invece di “che ora è”, si chiedeva: “Com’è l’ombra?” Gli orologi solari, a dispetto della sempre maggiore diffusione di quelli a polvere e poi di quelli meccanici, furono molto diffusi ancora nel Medioevo e fino al Settecento, continuando ad ornare, ad esempio, le cattedrali: era quindi la luce del sole a segnare il tempo, che era il tempo, in questo caso, della liturgia e delle festività religiose, il tempo “sacro”. E il tempo, prima dell’avvento di quello “tecnico” introdotto dall’orologio meccanico, è stato sempre un tempo “sacro”: se l’orologio solare si legava al ciclo del sole, quindi al movimento degli astri, simboli visibili degli dei invisibili, il rintocco delle campane delle chiese annunciava le ore canoniche della preghiera: erano queste, in numero di otto, a scandire il ritmo della giornata, e non le astratte ventiquattro dei nostri orologi meccanici.
Il tempo dell’orologio solare è un tempo ciclico, il tempo delle stagioni e dell’eterno ritornare. E’ un tempo non umano, perché il suo principio è il sole, “occhio” del Cielo; quindi tempo celeste. E’ il tempo del destino, del fato, a cui l’uomo non può sottrarsi: il corso delle ombre non dipende da lui, così come è impossibile divincolarsi dalla propria di ombra, che, proprio come il tempo e il fato, ci segue ovunque. Il tempo ciclico è così un tempo “inquietante”, tempo di antiche paure: paura che gli dei, o gli antenati, tornando, possano vendicarsi dell’ingratitudine degli uomini; o paura che il sole non torni più, negando la vita ai suoi figli prediletti, gli uomini. Il tempo ciclico è quindi anche il tempo del rito e del sacrificio. Tempo inquietante, il tempo ciclico è altresì il tempo del ricordo, il tempo della nostalgia: ricordo e nostalgia delle origini, dell’Età dell’oro, quando, in illo tempore, tutto ebbe inizio. Quindi tempo delle feste, che ritornano anch’esse ciclicamente e sulla cui cadenza si sono regolati tradizionalmente i calendari.
Se l’orologio solare si ricollega al Cielo, l’orologio a polvere è legato alla Terra: è quindi uno strumento di misura di natura tellurica. Il primo si fonda sugli elementi celesti – la luce irradiata dal sole e il ciclico alternarsi tra luce e ombra – il secondo su quelli terreni, come la sabbia che riempie i recipienti e la forza di gravità della Terra che la fa scorrere. Strumenti tellurici sono anche i parenti più prossimi dell’orologio a polvere, gli orologi ad acqua – presenti già nell’antichità e nei quali la sabbia è sostituita dall’acqua - e gli orologi ignei – che misurano il tempo attraverso la combustione di determinate sostanze e diffusi soprattutto nel Medioevo. E se il tempo degli orologi solari è un tempo “ciclico”, il tempo degli orologi tellurici è il tempo “lineare”: qui non abbiamo a che fare con moti circolari, bensì con movimenti di materia che scorre, fluisce, in senso appunto lineare. Siamo così di fronte alle due essenziali concezioni del tempo che, attraverso alterne vicende, hanno accompagnato il cammino dell’uomo: da una parte il tempo “mitico”, dall’altra il tempo “storico”; là il tempo del ricordo e della nostalgia, qua il tempo della speranza e dell’attesa. Il tempo ciclico è un tempo che dona e restituisce; il tempo lineare un tempo che promette. Nel primo l’Eden, dove il tempo è sospeso e non battono più le ore, è posto all’inizio, prima di tutti i tempi; nel secondo alla fine, la fine dei tempi. La differenza tra le due concezioni si esprime anche nei modi di dire e nelle espressioni della quotidianità: “il tempo passa”, “il tempo fugge” riflettono la concezione lineare; “tutto torna”, “corsi e ricorsi” la concezione ciclica.
Se l’orologio solare riflette il tempo del mito e quello a polvere il tempo della storia, l’orologio meccanico sancisce la fine della storia e l’avvento del regno della Tecnica. C’è storia, infatti, fin quando riconosciamo avvenimenti unici ed irripetibili, la cui trama disvela un senso che li lega l’un l’altro. L’orologio meccanico, dividendo il tempo in unità astratte ed uniformi, e pertanto intercambiabili – come intercambiabili sono gli individui che su di esse regolano la propria esistenza – annulla la peculiarità degli eventi e proietta l’uomo in un orizzonte privo di senso. Il tempo della Tecnica né dona né promette: si limita a “riprodurre” se stesso. Si limita a funzionare. Nel tempo della Tecnica, passato, presente e futuro sono parole “senza senso”, essendo tutti i momenti uguali, ripetibili, privi di una propria e specifica identità, dove “l’uno vale l’altro”. Nell’orologio a polvere, invece, questi tre momenti, che costituisco il filo della storia, sono ben scanditi: “nel vaso superiore – osserva Jünger - la riserva del futuro si dilegua, mentre in quella inferiore si accumulano i tesori del passato; tra le due guizzano gli attimi attraverso il punto focale del presente”. L’orologio meccanico realizza così l’aspirazione ultima dell’uomo della società tecnologica: la fine della storia e l’affermazione di un mondo che si limita a riprodurre se stesso, espandendosi indefinitivamente secondo linee di sviluppo puramente quantitative. Jünger anticipa così quelle riflessioni che costituiranno il tema centrale del successivo Al muro del tempo (1959), destinata a diventare una delle sue opere più note del periodo successivo alla seconda guerra mondiale, e dedicata appunto al problema delle nuove concezioni temporali che si annunciano al configurarsi dell’umanità post-storica.
Jünger arriva a definire l’orologio meccanico il prototipo della “macchina”, quasi l’“archetipo” di tutte le macchine. Il concetto di “macchina”, infatti, evoca subito quello di un oggetto fondato sullo stesso principio dei moderni orologi: l’automazione di una serie di ingranaggi regolati da movimenti meccanici uniformi e ripetitivi. L’orologio meccanico è quindi la necessaria premessa della macchina, perché senza di quello queste sarebbero impensabili. “Tutte le macchine e gli automi che lo seguiranno – afferma Jünger – lavorano al ritmo dell’orologio meccanico: le loro prestazioni sono traducibili nel suo tempo e si possono misurare in base ad esso”. E’ per questo che Jünger pone l’orologio meccanico a fondamento del mondo moderno: “con questo tempo ‘diverso’ ha inizio la modernità come oggi la intendiamo. Per capire cosa sia accaduto basta che guardiamo l’orologio”. La modernità non inizia né con la polvere da sparo, né con la stampa, e nemmeno con la scoperta dell’America, bensì con l’invenzione dell’orologio meccanico: “si può dire che il grande spettacolo della tecnica umana e della sempre più rigida automazione - continua Jünger - sia cominciato con il movimento del primo orologio meccanico”. Esso costituisce il primo anello di quella vasta catena, la prima maglia di quell’enorme rete planetaria tutto avvolgente che il mondo mobilitato dalla Tecnica rappresenta; il suo battito ha dato il là alla monotonia ed alla ripetitività che contraddistinguono i ritmi della nostra vita.
Prima della comparsa dell’orologio meccanico, l’Occidente non sembra conoscere nemmeno una sua specifica “tecnica”, ed i suoi strumenti, le sue “macchine”, erano più o meno quelli del mondo antico. Solo con l’orologio meccanico, secondo Jünger, “ciò che da allora in poi avrà il nome di macchina avrà poco a che vedere con ciò che gli antichi definivano con lo stesso nome”. Perché è sempre la diversa concezione del tempo, dunque del mondo, che sta dietro a tali strumenti a definirne l’essenza e la natura, e solo la scissione dagli “elementi naturali” per l’affermazione di un tempo “artificiale” ha reso possibile la macchina nella sua accezione di modello di organizzazione totale del mondo e non di semplice strumento ad hoc, limitato ed adeguato ad una sola e specifica circostanza. Più che prima macchina, allora meglio si potrebbe definire l’orologio meccanico come primo “automa”. Certamente anche l’antichità ha conosciuto i suoi automi, ma questi, in genere, venivano considerati nulla più che stravaganze, bizzarri giocattoli frutto dell’ingegno di menti senza dubbio geniali ma al tempo stesso eccentriche. Anzi, i costruttori di macchine e di automi dei tempi passati avevano spesso la fama di maghi, stregoni, da cui era bene stare alla larga. A tal proposito, Jünger ricorda il noto e divertente episodio di Tommaso d’Aquino che distrusse a colpi di bastoni l’androide costruito dal suo maestro Alberto Magno, e che questi si divertiva a far apparire all’improvviso ai suoi ospiti. Quell’Alberto Magno ricordato dai posteri anche come mago.
E come mago, dedito addirittura alla magia “nera”, è passato alla storia anche quello che la tradizione riconosce come l’inventore dell’orologio meccanico, Gerberto di Aurillac, arcivescovo di Reims e maestro dell’imperatore Ottone III, salito al soglio pontificio nel 999 con il nome di Silvestro II, tra le menti più universali che la civiltà medievale abbia vantato. Teologo, scienziato, matematico ed inventore di numerose “macchine”, nel corso del Medioevo si intrecciano attorno alla sua figura numerose leggende, che lo vogliono esperto in magia nera ed in combutta con il demonio. Sarà un caso che la tradizione abbia indicato proprio in lui l’inventore dell’orologio meccanico? E’ comunque certo che questo abbia fatto la sua apparizione attorno all’anno mille, ed il modo con cui la mentalità medievale si raffigurava il suo presunto inventore e si rapportava alle sue creazioni la dice lunga su cosa si pensasse a quel tempo delle “macchine”: in un modo o nell’altro, erano tutte opera del “demonio”. Ancora Pio IX, in pieno Ottocento, considerava tale l’invenzione delle ferrovie. E secondo Jünger a ragione, a partire da una certa prospettiva, perché dove fa la sua comparsa la “macchina”, là muore il “sacro”. “Con la stessa diffidenza – nota Jünger – il selvaggio accosta l’orecchio all’orologio da tasca. Se pensa che vi sia nascosto un demone, forse non ha torto”. Ed è per questo, che pochi, ai tempi di Gerberto o di Alberto Magno, di fronte alle macchine come agli automi, si lambiccavano il cervello per ricercarne o intravederne le possibili implicazioni pratiche. E’ notorio, del resto, che la storia delle invenzioni antiche è spesso storia del loro mancato utilizzo, cosa che per la mentalità moderna risulta inspiegabile. A tal proposito, un’altra tradizione vedrebbe nei cinesi gli inventori anche dell’orologio meccanico; ma come per la polvere da sparo, la stampa e la bussola, anche quello sarebbe stato destinato a restare poco più che una curiosità. Solo con l’occidentalizzazione, e quindi l’affermarsi della relativa concezione del tempo, l’orologio meccanico iniziò a diffondersi anche in Cina.
Echi di quella diffidenza, di quel sospetto, risuonano anche oggi, nel malessere e nell’insofferenza che ancora ai nostri giorni suscita in noi il contatto troppo ravvicinato con il mondo delle macchine, il mondo dell’orologio meccanico, che spesso additiamo come il vero responsabile delle nostre ansie e del nostro stress quotidiano. Ancora oggi, dice Jünger, avvertiamo che “esso indica realmente un tempo diverso da quello che scorre. Anche quando parliamo del movimento, del corso del tempo, del trascorrere del tempo, alludiamo a questo tempo antico, continuo, indiviso. Ma la lancetta dell’orologio non si muove secondo le sue leggi”. La lancetta non scorre, ma si muove a scatti; si ferma per poi riscattare in avanti e così all’infinito. Che tempo è mai questo? Un tempo che non scorre più, fluido e silenzioso, come scorrevano la sabbia o l’acqua della clessidra, la fiamma che bruciava il lucignolo dell’orologio igneo o l’ombra dello gnomone seguendo i movimenti degli astri. Eppure, proprio al fine di misurarlo e dominarlo meglio, di strapparlo alle forze elementari della natura e costringerlo entro le mura della nostra città, “fu concepita l’idea di misurare e suddividere il tempo con quelle macchine che noi chiamiamo orologi. […] Così cominciarono la loro corsa tutti gli orologi che oggi ‘vanno’”. Ma, osserva Jünger, è lecito chiedersi se in questo modo ci siamo costruiti un palazzo o una prigione. Resta il fatto che “all’epoca degli orologi a polvere tutti avevano più tempo di oggi che siamo accerchiati dagli orologi”. Abbiamo voluto misurare e dominare meglio il tempo; ma forse “il mondo degli orologi e delle coincidenze è il mondo degli uomini poveri di tempo, che non hanno tempo”.
Stefano Di Ludovico
[fonte: Movimento Zero]
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