Londra, la capitale finanziaria dell’Europa e del mondo, è in fiamme e sull’estuario del Tamigi si leva all’orizzonte il fumo di innumerevoli inicendi.
Brucia come non bruciava da tempo, forse nemmeno sotto le bombe e le V2 tedesche, durante la seconda guerra mondiale: perché brucia dall’interno.
Forse, per trovare qualcosa di simile, bisogna riandare indietro fino a quel principio di settembre del 1666 (mille più il numero della Bestia!), quando la City era ancora in gran parte di legno ed un immenso incendio la ridusse letteralmente in cenere.
La rivolta di questo agosto 2011, che ricorda un po’ quella delle “banlieue”francesi del 2005, è scoppiata tanto violenta quanto inaspettata: ciò che mostra fino a qual punto giunga la nostra inconsapevolezza, l’inconsapevolezza dei nostri uomini politici.
La verità è che l’uccisione di un giovane immigrato da parte della polizia britannica ha agito come il classico cerino gettato nel pagliaio: il pagliaio esisteva già ed era più che mai infiammabile, riarso dal calore dell’estate ed esposto in ogni istante al pericolo d’incendio.
Ma davvero qualcuno poteva immaginare che le cose sarebbero andate avanti così, tranquillamente, a tempo indefinito?
Davvero qualcuno poteva immaginarsi che, un giorno o l’altro, l’immensa frustrazione, l’immensa rabbia di milioni di moderni schiavi non sarebbero esplose, con effetti devastanti, nel cuore delle nostre scintillanti metropoli?
La verità è che ci siamo lasciati ingannare e anestetizzare dalla nostra stessa propaganda: un errore imperdonabile, peggiore del peggiore dei possibili autogol: un errore che commettono soltanto gli idioti senza speranza.
Abituati a guardare i nostri film, che dipingono New York, Los Angeles, Londra e Parigi press’a poco come altrettanti paradisi in terra, come i luoghi più scelti, desiderabili e fortunati che la civiltà umana abbia mai prodotto, abbiamo finito per perdere il contatto con la realtà.
Ci siamo dimenticati che Milano non è, e non è più stata a partire dal “boom” di sessant’anni or sono, una “città da bere”; che Parigi, Londra e New York non sono quelle, patinate ed esclusive, dei serial televisivi a un tanto il metro di celluloide.
Avremmo dovuto rileggerci Ezra Pound, le sue parole profetiche sul vizio dell’usura; avremmo dovuto rileggere John Ruskin e William Morris, i quali, mentre la civiltà industriale celebrava i suoi dubbi trionfi, ammonivano che il nostro preteso “progresso” era, in realtà, un regresso e che, certificando il divorzio fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, fra utilità e bellezza, fra guadagno materiale e ricchezza spirituale, stavamo piantando i chiodi, con inconcepibile leggerezza, sopra il coperchio della nostra stessa bara.
Forse, sarebbe bastato rileggerci in controluce la «History of the Decline and Fall of the Roman Empire» di Gibbon: e ci saremmo resi conto che il proletariato interno delle megalopoli occidentali, unendosi al proletariato esterno proveniente da oltre il “limes”, magari a bordo delle carrette del mare stracariche di Maghrebini, di Africani sub-sahariani, di Indiani, di Cinesi, di Latino-americani, a un certo punto si sarebbe ribellato e avrebbe sommerso ogni cosa.
Avremmo dovuto lasciarci prendere per mano da chi aveva capito più di noi, da chi aveva saputo vedere meglio e più lontano; e, a conclusione del nostro “viaggio al termine della notte”, avremmo dovuto correre ai ripari, prima che fosse troppo tardi.
Una città non può crescere oltre un certo limite, senza diventare inevitabilmente una succursale dell’Inferno: una città di tre milioni d’abitanti, di otto milioni d’abitanti, è una bolgia dantesca; figuriamoci una di quindici o di venti milioni.
Questo lo aveva capito perfettamente un filosofo come Lewis Mumford e lo aveva anche scritto in un’opera memorabile: «La città nella storia»; peccato che sia stata o poco letta o poco meditata, o entrambe le cose.
L’Impero è cresciuto troppo: accecato dalla sua brama smisurata di ricchezze e di potere, si è spinto oltre la propria capacità di assimilare e metabolizzare l’immenso materiale umano che aveva avidamente inglobato; ed ora è preda delle convulsioni di una crescita caotica, devastante, assolutamente fuori controllo.
Platone aveva ammonito che la polis deve essere governata o dai filosofi, o da governanti che abbraccino la filosofia; ma qui sarebbe bastato che i governanti e i sedicenti intellettuali si fossero limitati a leggere i segni annunciatori della catastrofe, chiari come non mai.
Non lo hanno saputo fare: è stata la bancarotta di una intera classe dirigente, non del premier Cameron o del sindaco di Londra; della classe dirigente mondiale o, quanto meno, della classe dirigente del mondo occidentale.
Eppure, non si può dire che i segnali premonitori fossero stati pochi; né che l’esito disastroso di questa dissennata politica dell’immigrazione fosse difficile da prevedere. Dopotutto, sarebbe bastato il buon senso antico: quello, per intenderci, dei nostri nonni e bisnonni contadini.
Quando si spalancano le frontiere a masse enormi di immigrati, o si ritiene ragionevolmente di avere gli strumenti per assimilarli, gradualmente ed efficacemente; oppure si attua, più o meno deliberatamente, una politica suicida: bisognerebbe vedere, dunque, a chi giova e con quali obiettivi che l’Europa si stia suicidando con il massimo impegno.
Arnold Toynbee ha messo in chiaro che il collasso dell’Impero Romano è stato provocato essenzialmente dalla sua incapacità, giunto al limite estremo delle sue possibilità di espansione, di assimilare tanto il proletariato esterno, ossia le popolazioni barbariche stanziate oltre il Reno e il Danubio, quanto quello interno, ossia le masse dei provinciali poveri, soprattutto dei coloni agrari sottoposti alle dure vessazioni dei latifondisti.
A un certo punto, specialmente a partire da Costantino, gli imperatori romani ritennero che fosse buona politica quella di accogliere dentro le frontiere intere popolazioni barbariche, come i Visigoti, allo scopo di farne delle truppe ausiliarie e delle popolazioni residenti nelle province di frontiera, cointeressandole alla difesa dagli altri e più minacciosi nemici esterni, per esempio gli Unni; ma fu un errore fatale.
Forse non c’erano altre strade percorribili, una volta che il ceto senatorio aveva deciso di chiudersi egoisticamente a difesa dei propri interessi: ma fu un sacrificio inutile, perché l’impero venne scardinato dall’interno prima ancora che dall’esterno; e i ricchi proprietari terrieri trovarono il modo di sopravvivergli, venendo a patti con i nuovi padroni e cedendo alle popolazioni germaniche un terzo delle loro terre.
Ebbene, tutto ciò si sta ripetendo con un grado impressionante di analogia.
Credendo di farne dei nuovi difensori di se stessa, l’Europa ha spalancato le porte a parecchi milioni di immigrati, peraltro con discernimento ancor minore degli imperatori romani, perché non sono stati scelti i più contigui e facilmente assimilabili, ma si è dato accesso a tutti, di qualunque provenienza e specialmente a un numero enorme di musulmani, i quali vengono qui ben decisi a non assimilarsi, anzi, a convertire noi alla loro fede e alla loro tradizione.
Difficile non vedere, dietro scelte così incaute e dietro una demagogia buonista così controproducente, un disegno ben preciso, nel quale, forse, gli interessi degli sceicchi del petrolio si sposano con quelli delle multinazionali, decise ad abbassare il costo del lavoro; ed entrambi si intrecciano con altri interessi, ancora più torbidi e oscuri, di gruppi e società il cui scopo è controllare la ricchezza ed il potere mondiali, anche manipolando incessantemente e sistematicamente la pubblica informazione.
Certo è che la bomba a orologeria è stata innescata e, prima o poi, esploderà. La stragrande maggioranza degli immigrati regolari (per non parlare di quelli clandestini) non ha la benché minima speranza di raggiungere il nostro tenore di vita e ciò è motivo di continua frustrazione; molti, poi, devono adattarsi a vivere in condizioni miserabili.
Ed ecco che essi si accorgono che vivere da miserabili in Europa è forse meno drammatico in senso assoluto, ma infinitamente più squallido in termini relativi, che vivere da miserabili nei loro Paesi di provenienza: là, almeno, essi potevano contare su tutte quelle strutture e quegli istituti informali che funzionano a livello di solidarietà familiare, o di villaggio, o tribale, o religioso; mentre qui si è soli: e chi è solo è perduto.
Come fa una coppia di operai nigeriani ad andare al lavoro, se non ha nessuno a cui affidare i suoi bambini piccoli, né un parente, né un amico; e se non può di certo permettersi il lusso di pagare una baby sitter, e nemmeno di mandarli all’asilo?
E come mettere da parte qualche soldo, anzi, come riuscire a mandare qualche soldo a casa, ai parenti rimasti laggiù, se il costo della vita europeo è così alto da impedir loro di realizzare il benché minino risparmio?
Come mandare a studiare i figli alle scuole superiori o all’università, quando quasi tutto il salario se ne va per l‘affitto, per le bollette del gas, della luce, del riscaldamento e per l’abbigliamento, pur limitandolo all’essenziale e continuando a sfruttare i vecchi abiti tradizionali?
Così, essi devono adattarsi a vivere nei quartieri più poveri, negli edifici più degradati, in mezzo agli spacciatori e alle prostitute, che sono sovente dei loro compatrioti, ma con i quali non vorrebbero avere nulla a che fare; senza alcuna speranza, non diciamo di miglioramento sociale, ma neppure di graduale inserimento, quand’anche lo volessero.
Poi c’è il problema della seconda, della terza, della quarta generazione. I ragazzi stranieri nati in Europa possiedono una identità incerta: si sentono, in genere, Europei, ma con molte riserve e con molti distinguo; invidiano la libertà e la disinvoltura dei loro coetanei Europei, ma sentono anche il richiamo dei valori paterni e materni; tendono a fidanzarsi e a sposarsi fra di loro, secondo il volere dei genitori, e ciò non facilita certo l’integrazione.
Infine arriva il momento in cui essi medesimi non sanno più chi siano: a volte basta una breve vacanza al Paese di origine della famiglia, per subirne il fascino in modo fortissimo, per riscoprire, insieme alle proprie radici, un rancore mai sopito contro l’Europa, questo continente ricco e decadente che li ha sedotti, ma non saziati; che ha fatto intravedere loro una possibilità di riscatto sociale, ma poi li ha respinti ai margini del benessere, a svolgere i lavori più faticosi e mal pagati, ad abitare nelle case più misere e fatiscenti.
E monta in loro la rabbia.
Vedono, sanno, capiscono, che non riusciranno mai a diventare benestanti come gli Europei dei quartieri medio-alti; che saranno destinati a raccogliere eternamente le briciole cadute dalla tavola del ricco Epulone; che, qualora la crisi economica stringesse ancora un altro giro di vite, forse dovranno addirittura tornare in Africa, in Asia, da dove sono partiti i loro nonni e bisnonni, ma dove essi non potrebbero mai adattarsi a vivere, perché quello non è il loro mondo, non lo è mai stato e non ne vogliono sapere.
Disperati come lo sono tutti gli sradicati, estremisti come lo sono tutti gli impazienti, verrà il giorno in cui si ribelleranno in massa, favoriti dal loro velocissimo ritmo di incremento demografico; e si impadroniranno dell’Europa, così come i Franchi, i Goti, i Burgundi, si impadronirono dell’Impero Romano d’Occidente, non appena trovarono dei capi decisi e scoprirono il grande segreto: che Roma era un colosso dai piedi di argilla e che non aveva più né la forza, né la volontà di resistere a un assalto, purché le fosse consentito di folleggiare sino all’ultimo.
Il problema è che i Goti, i Franchi, i Burgundi, erano dei popoli e quindi, bene o male, degli interlocutori naturali, buoni o cattivi che fossero, del vecchio mondo romano ch’essi andavano sovvertendo e sostituendo, nel tempo stesso che ne ricevevano la lingua e la cultura; mentre oggi non vi sono popoli, bensì masse disordinate e caotiche, moltitudini formate da innumerevoli atomi sbandati e deculturati: il nulla, quindi, dal punto di vista della ricostruzione.
Dal caos dell’Europa non sorgerà una civiltà nuova, ma una miriade di realtà esclusiviste e conflittuali, come già si vide nella rivolta di Los Angeles del 1992.
A meno che qualcuno, come accadde nell’Alto Medioevo, riesca a tenere ancora viva la fiammella della civiltà, dell’umanità, dell’amore…
Francesco Lamendola
[fonte: Arianna Editrice del 16 agosto 2011]
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