"No, io in giacca e cravatta proprio non sto comodo"… O anche: "quando vesto devo stare comodo"… Ancora: "la comodità, e tre!, prima di tutto". Quante volte vi siete imbattuti in uomini e donne, inguardabilmente sciatti, che cercavano rifugio in queste balbettanti giustificazioni? Il problema è che non solo non ci sono più le mezze stagioni ma scarseggiano anche le mezze misure, quelle che un sarto degno di questo antico mestiere non avrebbe problema a confezionarci su misura. Facile immaginare quale obiezione stiate maturando: i sarti costano e il prezzo dell’eleganza è generalmente troppo alto. Sbagliato! L’eleganza è essenzialmente educazione al bello, esercizio di gusto, cura e rispetto personale, viaggio e ricerca di sé. Chi è veramente elegante non si fa notare, non ne ha bisogno. Il che non significa necessariamente omologarsi e indossare costosissime divise di grisaglia e calzare scarpe tanto care quanto seriali: completi tristemente uguali, colletti bianchi e griffe ricorrenti la cui unica pretesa è quella di farci accettare dal gregge di riferimento, per quanto di lusso. L’eleganza, quella vera, non si compra, si coltiva.
A scuoterci dall’assopimento del gusto, torna domani in libreria il Trattato della vita elegante (Piano B edizioni, pp. 160, € 10) di Honoré de Balzac. Altro che opera minore, il libro, scomparso dal panorama editoriale italiano, rappresenta un vero e proprio culto per migliaia di lettori. Giovani e meno (molto meno) giovani: c’è chi, per averlo, l’ha sottratto alla biblioteca, chi con lungimiranza, in anni lontani, ne ha fatto razzia di copie, chi vive appostato su ebay col mirino puntato e chi, i più, era in attesa di una nuova edizione. Curata con eleganza, per l’appunto, da Alex Pietrogiacomi, giornalista e scrittore allenato al buon vivere – “assorbire”, confessa, è il verbo che più lo convince nella sua vita – e arricchita dai contributi di Salvatore Parisi e Tiziana Goruppi, oltre che dalle illustrazioni di Massimiliano Mocchia di Coggiola, non a caso Conte.
«L’uomo elegante – avverte il padre del realismo e del romanzo francese – non può che essere aristocratico e non può che appartenere a quelle classi di persone che sono distanti dal lavoro, che si tengono lontane dai turbamenti fisici che questo può arrecare». Il pamplhet, tuttavia, non è affatto classista come potrebbe sembrare a un osservatore superficiale, né anacronistico, pur esaltando l’ozioso e trattando di modi e maniere in un’epoca lontana, con l’Illuminismo che aveva santificato il lavoro e la borghesia, ansiosa di riscattare i propri natali e affermarsi come classe dirigente, china a studiare sui manuali di comportamento.
Borghesia che Balzac si diverte a pungolare, come quando prende in giro le nascenti professioni liberali: «Hanno giornalmente un certo numero di impegni, fissati sulle agende. Questi libricini rimpiazzano i mastini che li tormentavano a scuola e ricordano a ogni ora che sono gli schiavi di un essere mille volte più capriccioso e ingrato di un sovrano». Le sue sagaci osservazione sulla società del 1830, del resto, sono ferocemente attuali, come quando parla della «casta allargata formata dai prìncipi del pensiero, del potere e dell’industria» o afferma che per essere eleganti, senza non rimane che vincere al lotto, essere figli di un milionario e accentratori di cariche, categorie che, indubbiamente, vanno forte anche ai giorni nostri.
Altro che bignami di grazia e portamento, pertanto. «Si tratta – ci spiega Pietrogiacomi – di un libro rivoluzionario, anche se di una rivoluzione zen, tranquilla. L’intento di Balzac è quello di provocare una reazione nel lettore, stimolarne l’intelligenza, indurlo a cercare risposte proprie e, magari, a fare diversamente da quello che egli stesso va consigliando».
Leggendo queste pagine, infatti, non possiamo non prendere atto di quanto siamo disabituati a riconoscere il bello, a frequentarlo, a sceglierlo. «Se una volta vivevamo l’arte – ci dice Pietrogiacomi – adesso ci limitiamo a fruirla, a subirla, istigati come siamo a consumare senza più interrogarci se una cosa la vogliamo o no, se ci piace o no. La prima cosa che ci passa in mente è “la devo avere” e persino i nostri desideri sono condizionati al ribasso, anche in fatto di donne: una volta la bellezza era originale e ricca di contraddizioni, adesso vogliamo solo la Barbie, perfettina quanto anonima. Che si tratti di un format televisivo o di un vestito poco importa, prendiamo tutto quello che ci esonera dal pensare, che credevamo ci rendesse la vita più facile e invece ci ha reso semplicemente degli ebeti».
La conquista dell’eleganza, invece, ci fa capire Balzac, è un viaggio faticoso, da intraprendere in solitudine, alla riscoperta della nostra identità e non del modo migliore attraverso cui nasconderla dentro una comune. Cosa dobbiamo cercare? «La semplicità delle buone maniere, di un capo abbinato in modo corretto, il rispetto di unità, nettezza e armonia, il piccolo rituale di scegliere la propria mise in base al dove, al quando e al perché di un luogo – scrive Salvatore Parisi, psicologo e saggio dell’eleganza classica – perché indossare al meglio un abito conoscendone le fatiche di creazione e i tessuti impiegati ci eleva nella scala gerarchica dell’universo maschile».
Il grande insegnamento di Balzac, in fondo, è quello di far comprendere, a chi davvero lo desideri, che l’importante non è (solo) fare una decorosa figura in un salotto, attenersi all’etichetta e affidarsi alle apparenze: il bello è in ognuno di noi. «L’uomo non ha bisogno di un trattato che gli dica come comportarsi – scrive Pietrogiacomi nella prefazione – ma di riscoprirsi unico». E farlo prima che sia troppo tardi, perché – come chiosa Balzac – «raggiunta l’età in cui ci si può riposare, il senso dello stile è svanito e il tempo dell’eleganza è finito per sempre».
L’alternativa è abdicare definitivamente alla nostra capacità critica e rimanere foderati nei nostri abiti infelici quanto costosi, rigorosamente uguali, convinti di essere stilosi quando siamo, piuttosto, figli non di un dio minore ma di un codice a barre.
Roberto Alfatti Appetiti
[fonte: Il Secolo d'Italia del 31 luglio 2011]
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